La conoscenza delle piante a fine terapeutico, alimentare, domestico, artigianale, rituale e magico è un prezioso sapere che si è tramandato di generazione in generazione e che solo recentemente è stato riscoperto ed in particolare studiato dalla moderna industria farmaceutica, sfruttando i principi curativi che madre natura ci ha donato.
Un patrimonio culturale che con il progredire della modernità e della globalizzazione rischia di essere dimenticato.
Così importante che, nel timore di perderlo, è stato riconosciuto dall’Unesco, ritenendolo, in un’ottica più ampia, uno degli aspetti fondamentali per la preservazione della biodiversità e delle differenze culturali.
Il tutto riassumibile in un termine Etnobotanica.
Etnobotanica che ci racconta di quando Bacì, avendo i figli ammalati di tosse “asinina”, andava ai laghetti del torrente Argentina per tagliare una canna (Arundo donax) tra un nodo e l’altro per poi riempirla di zucchero tappandola da una parte ed usando il giorno successivo lo sciroppo che si era formato come lenitivo della tosse.
Etnobotanica che ci ricorda che le parti aeree della Parietaria officinalis, la volgare “gambarussa”, causa di tante allergie, venivano somministrate sotto forma di decotto come diuretico, lassativo e depurativo ed utilizzate, anche in cantina, per pulire le damigiane prima di accogliere il vino nuovo, oppure che le foglie fresche della piantaggine (Plantago officinalis), la “sinque nervi” venivano raccolte da Marietta per curarsi i foruncoli e che per le sue proprietà cicatrizzanti ed antibatteriche era una pianta ben nota ai contadini che la usavano per disinfettarsi i tagli.
Ed in periodi di magra, perché non integrare con le sue foglie la frittata per dargli più consistenza!
In Valle Roya e Nervia i licheni frondosi dei pini, “barba de pin” , venivano usati per pediluvi, regolando così, la sudorazione dei piedi mentre con la resina del Pinus Sylvestris scaldata e colata su un foglio di carta, indurendosi, si fabbricava una sorta di cerotto che veniva applicato sulla parte dolorante, ammorbidendolo con una fonte di calore.
Il dolore passava ma, ahime, spesso e volentieri a farne le spese era la pelle che si riempiva di vesciche.
In Valle Argentina per curare la gotta e la sciatica bastava mettere tra due pezze alcune foglie di cavolo riscaldarle e pressarle con il ferro da stiro e porle sulla parte dolorante.
L’iperico, l’erba di San Giovanni, dalle molteplici virtù, era citato in epoca medioevale con l’apellativo “fuga demoniorum” in quanto veniva bruciato nelle case in cui si credeva dimorassero i diavoli che fuggivano dal suo profumo simile all’incenso.
Inoltre, non dobbiamo dimenticare che tra la bassa valle Arroscia e la valle Lerrone erano impiegate più di 61 specie vegetali ad uso medicinale, appartenenti a diverse famiglie tra cui le più rappresentative Asteraceae, Graminaceae, Labiateae e Rosaceae.
Ma quanto erano saggi i nostri vecchi e quanto è ricco il nostro entroterra!!!
Piccone Antonella
Fonti bibliografiche Maccioni, Oddo, Rovesti
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